Una trasposizione ironica per raccontare il drammatico momento che sta vivendo il teatro a causa del coronavirus.
È desolante girare per le città e vedere i teatri chiusi. Le vetrine sono spoglie ed i cartelloni ormai ingialliti. Questo triste scenario evoca una situazione definitiva, non transitoria.
Nonostante le promesse governative di prossima riapertura delle sale, il teatro (qui inteso nel senso più ampio del termine) rischia di trovare nella crisi dell’ultimo anno il suo decorso decisivo. Il Covid ha chiuso i teatri ma il pubblico (o meglio, la sua assenza) li aveva già svuotati.
Qual è la condizione necessaria perché uno spettacolo abbia luogo? Che ci sia almeno un attore che recita e uno spettatore che assiste. Quindi niente pubblico, niente spettacolo.
Esiste una convenzione nell’arte drammatica: se il numero degli spettatori è inferiore a quello degli attori non si va in scena. Già da parecchi anni il teatro non è più considerato un’arte popolare. Proliferano le scuole di teatro ed i giovani mestieranti che vogliono entrare a far parte di quel mondo, ma il pubblico scarseggia sempre di più.
Leggi anche: Moda, Dolce e Gabbana scelgono un robot per aprire la sfilata
La crisi dello spettacolo dal vivo
Nell’era dell’accessibilità istantanea alla cultura consentita dalla tecnologia, lo spettacolo dal vivo come evento unico ed irripetibile risulta dissonante. Allo stesso tempo è il suo punto principale di attrazione.
Creare un evento che ogni sera si rinnova è una peculiarità dell’arte drammatica. Lo spettacolo teatrale si compone di tanti elementi: il testo, il palcoscenico, la platea, gli attori ed il pubblico. Tutti questi aspetti concorrono a portare avanti una modalità molto antica di raccontare storie e sentimenti umani. Se uno di questi elementi viene meno, la magia sparisce.
Il rischio del contagio da pandemia ha alterato questo meccanismo tradizionale. Poltrone distanziate, mascherine e disinfettanti sottraggono allo spettatore il piacere della partecipazione ad uno spettacolo pubblico.
I teatri probabilmente riapriranno a fine mese, ma il settore rimarrà in crisi per parecchio tempo se non si interviene immediatamente con delle misure adeguate.
L’ironia per parlare della crisi
È passato poco più di un anno dalla comparsa del virus. Nel teatro Trastevere di Roma è stato girato un cortometraggio scritto ed interpretato da Luca Basile dal titolo “Lo chiamavano teatro”. Ironicamente si apre il racconto nell’anno I d.c., cioè dopo Covid.
L’ambientazione è quella della platea di un teatro, dove un gruppo di persone partecipano ad una visita guidata del luogo come reperto archeologico. La sceneggiatura emula una visita archeologica di gruppo nella quale i partecipanti entrano in un teatro come fosse la prima volta nella loro vita. Sparito durante la pandemia e già dimenticato dopo poco più di un anno il teatro è il protagonista di questo spassoso cortometraggio a cui hanno partecipato vari artisti provenienti dall’arte drammatica e dal web.
Fabrizio Colica, attore, è noto per la serie online “Le Coliche”; Ludovica di Donato è una tiktoker di successo; Luca Basile è un attore noto per aver utilizzato le strade di Roma come palcoscenico.
Si dice che il teatro sia un’arte morta. Questo cortometraggio nato dall’amore dei suoi interpreti per l’arte drammatica è la dimostrazione che, al contrario, il teatro è capace di dialogare con il nuovo: il web, la televisione, il cinema.
Leggi anche: Zoom, 2,65 miliardi di ricavi nel 2020, prevista ulteriore crescita del 41%
Se si vorrà uccidere il teatro basterà lasciare i suoi mestieranti senza lavoro e senza sostegno economico. A tutti coloro che ritengono il teatro un’attività superflua in tempo di crisi, che può senza troppi scrupoli essere sacrificata durante una pandemia, si può rispondere semplicemente: ”Ci sono più cose in cielo ed in terra di quante tu ne possa sognare nella tua filosofia” (William Shakespeare, Amleto).