Movimento consumatori si unisce alla campagna #PayYourWorkers perché il colosso delle vendite online Amazon riconosca un salario a tutti i lavoratori e le lavoratrici, compresi quelli che lavorano alla produzione di ciò che poi viene venduto.
Come si legge nel comunicato, datato 26 maggio, “mentre Amazon si riunisce per l’assemblea annuale degli azionisti, le lavoratrici Ei lavoratori della sua catena di fornitura protestano per le e condizioni in cui sono costretti a vivere a lavorare” . Amazon, negli Stati Uniti, è infatti il primo distributore di moda con marchi propri che quindi hanno bisogno di essere prodotti in fabbriche.
In totale la rete dei produttori di vestiario marca Amazon è composto da 1400 circa fabbriche in tutto il mondo. Ma dei grandissimi profitti annuali che la società macina, le lavoratrici e i lavoratori, molti licenziati negli scorsi mesi, non stanno vedendo neanche un soldo.
Quando si acquista qualcosa su Amazon occorre sempre riflettere sul fatto che si sta facendo un acquisto di un bene che viene prodotto da qualche parte. Per esempio in Bangladesh dove lavora la fabbrica Global Garments. O dovremmo forse dire dove lavorava la Global Garments. A ottobre, la fabbrica ha chiuso lasciando 1200 persone senza stipendio e senza indennità di licenziamento.
Come raccontare Rintu Barua, addetto al controllo qualità dell’azienda “La chiusura della fabbrica ci ha portato via i mezzi per sopravvivere” . E, sempre nel racconto di Barua, è difficile trovare un altro lavoro, soprattutto quando salta fuori che sei stato un leader sindacale: “negli ultimi sei mesi ho provato a cercare lavoro in molte fabbriche. Ma siccome sono stato anche un leader sindacale alla Global garment, nessuno mi vuole assumere”.
Quello di Amazon con i sindacati è un rapporto che non esiste nella sostanza. Anche l’ultima votazione con la quale in uno degli stabilimenti di smistamento dei prodotti in America si sarebbe dovuto introdurre un sindacato ha visto invece la vittoria di chi non vuole i sindacati dentro Amazon.
Ma tornando ai lavoratori che producono ciò che poi viene smistato, ci sono anche, tra le altre, le lavoratrici e lavoratori che in Cambogia cucivano vestiti per Hulu Garment. Come si legge nel comunicato, “al termine del periodo di sospensione, i lavoratori sono stati richiamati per sottoscrivere con l’impronta digitale un documento che avrebbe dovuto garantire loro il salario finale. In realtà conteneva una clausola nascosta con cui di fatto si dimettevano volontariamente. La Hulu Garment ha così trattenuto 3,6 milioni di dollari di indennità di licenziamento spettante a quei lavoratori”.
Questa situazione va confrontata con i profitti che, anche durante la pandemia, Amazon ha visto aumentare: si parla di un + 84%. Ed è anche per questo motivo che la coalizione Make Amazon Pay ha programmato moltissime iniziative nei siti Amazon in cinque continenti e in 10 Paesi diversi: Regno Unito, Francia, Belgio Olanda Lussemburgo, Bangladesh e, Svizzera , Germania Australia e Stati Uniti.
Sul comunicato presente sul sito Movimento Consumatori è riportata anche una dichiarazione di Deborah Lucchetti, coordinatrice della campagna Abiti Puliti: “Amazon deve pagare tutti i suoi lavoratori e lavoratrici, ovunque risiedano e qualunque sia la loro mansione. È una questione di giustizia sociale che guarda a un nuovo modello di sviluppo che metta finalmente al centro la salute e il benessere delle persone che lavorano e non i profitti e la ricchezza di pochi“.
All’iniziativa #PayYourWorkers, hanno aderito sindacati e organizzazioni di 35 Paesi tra cui l’Italia. Come ricordato nel comunicato tra le organizzazioni aderenti ci sono: Filcams-CGIL, che rappresenta i lavoratori del Commercio, Turismo e Servizi e le organizzazioni FAIR, Altraqualità, Fondazione Finanza Etica, Guardavanti onlus, Movimento Consumatori, Attac Italia, Coordinamento Nord Sud del mondo, Dress the change, Equo Garantito, Fairwatch, FOCSIV, IFE Italia, Lungotavolo45, Manitese, Spin Italy.
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A questo link il comunicato sul sito di Movimento Consumatori