In Italia, ogni 100 metri percorsi ci sono ci sono circa 415 rifiuti marini sul territorio nazionale. Questa quantomeno, è l’impietosa statistica che emerge da uno studio realizzato dall’associazione Marevivo in collaborazione con British American Tobacco.
Il report, denominato “Piccoli gesti, grandi crimini”, è stato presentato ufficialmente in questi giorni dalla sottosegretaria al Ministero della transizione ecologica Ilaria Fontana. La speranza adesso, è che questi dati contribuiscano a sensibilizzare la popolazione, ma in particolar modo la politica verrebbe da aggiungere, per abbandonare alcune pratiche comuni che stanno inquinando il nostro pianeta oltre ogni limite consentito. D’altronde, tornando al dato citato in precedenza, la soglia fissata dall’Unione Europea è di arrivare a un massimo di 20 rifiuti marini ogni 100 metri. Un obiettivo che, guardando ai risultati del report, è ancora molto distante anche solo dall’essere inseguito con concretezza.
Nel presentare questi risultati, Fontana ha spiegato che il Mite sta svolgendo un immane quanto fondamentale lavoro per analizzare lo stato e la quantità dei rifiuti marini presenti sul territorio nazionale. Un monitoraggio costante, portato avanti “in collaborazione con l’Ispra e con le Arpa delle regioni costiere”. La sottosegretaria ha in seguito aggiunto che questa nuovo studio si propone di essere “una campagna con un nome ad effetto, che nasconde una grande verità. Per quanto stia aumentando la consapevolezza dell’opinione pubblica sullo smaltimento scorretto di alcuni articoli di plastica, pochi ancora sanno che tra i principali responsabili dell’inquinamento dei mari ci sono proprio i mozziconi di sigaretta”.
Ci troviamo dunque di fronte a evidenze difficilmente contestabili, che ci mostrano ancora una volta le crepe di un sistema malato, in cui l’uomo continua ad utilizzare le risorse a disposizione come se queste fossero infinite, continuando ad assecondare il grande “lapsus” del capitalismo: si produce in base alla domanda dei consumatori, e mai sulle risorse naturali che saranno a disposizione nel medio-termine per realizzare un determinato prodotto.
Quanto potrà durare ancora questa situazione?
Che il mondo sia in pericolo lo sappiamo da anni, e ci troviamo ormai in un momento storico in cui la maggioranza degli scienziati concorda sul fatto che il cambiamento climatico innescato dall’uomo sia tutto meno che una bufala priva di evidenze empiriche. E l’ennesima prova in tal senso, è anche arrivata di recente da un piccolo studio realizzato dall’Organizzazione Meteorologica Mondiale (WMO), che si proponeva di analizzare e elaborare la temperatura media del pianeta e le sue possibili variazioni di qui a cinque anni. Risultati poco confortanti, che hanno spinto l’Agenzia delle Nazioni Unite ad aggiungere di recente che secondo i loro esperti, nell’arco di tempo compreso tra il 2021 e il 2025, la temperatura globale dovrebbe aumentare di circa 1,5 gradi con “una probabilità del 90% di diventare il più caldo in assoluto mai registrato”. Un quadro che non può che destare profonda preoccupazione per il futuro a breve termine dell’eco sistema in cui viviamo, e che ha spinto Petteri Taalas, sottosegretario generale del WMO, a lanciare un appello alla politica e alla popolazione mondiale, a non trascurare questo “ennesimo campanello d’allarme”.
Come tutelare il nostro eco sistema e creare un percorso che gradualmente aiuti l’umanità a correggere la rotta?
È quasi scontato affermare che continuando a produrre senza preoccuparsi dei danni che infliggiamo quotidianamente al nostro eco sistema, non facciamo alto che infilarci in un baratro da cui sarà davvero difficile uscire.
Sicuramente, diventa fondamentale in tal senso potenziare tutti gli investimenti che riguardano la riforestazione del mondo e la tutela della biodiversità. E proprio per perseguire questo scopo, di recente l’agenzia dell’ambiente Onu ha realizzato un report intitolato “Stato della Finanza della Natura” in cui vengono effettuate alcune proiezioni sui fondi che serviranno di qui a 10 anni, per iniziare a porre rimedio alla progressiva devastazione del nostro eco sistema, che ormai dalla prima rivoluzione industriale, procede ad un ritmo che sembra condannarci all’estinzione senza appello. Nel 2020 le nazioni hanno speso una cifra a 133 miliardi di dollari per la tutela dell’ecosistema mondiale. Una somma che alcuni possono considerare importante, ma che in realtà risulta risibile in relazione alle reali esigenze del pianeta sul tema. Il team di ricerca Onu ha infatti calcolato che per poter realmente combattere la deforestazione e il cambiamento climatico, bisognerà incrementare questa voce di spesa fino alla cifra di almeno 536 miliardi l’anno entro il 2030.
Esiste poi un altro dato presente nel rapporto riferito al presente, a questa drammatica parentesi storica in ci si ritrova immersa l’umanità a causa della pandemia. Sembra infatti che il coronavirus abbia costretto le nazioni a mettere da parte gli investimenti per combattere l’inquinamento che, nelle voci di spesa dei vari stati post pandemia, hanno riguardato soltanto il 2,5 per cento degli investimenti economici varati dai vari stati per rilanciare le economie nazionali. Una scelta per certi versi comprensibile. Ci troviamo di fronte a quella che lo stesso Fondo Monetario Internazionale definisce come una delle più grandi crisi economiche della storia, ed è normale che chi governa ha in primo luogo la priorità di fare di tutto per trascinare fuori dalla povertà tutti coloro che si sono ritrovati in forte difficoltà a causa delle chiusure e delle tanti limitazioni commerciali imposte dalle misure restrittive.
Bisogna però anche chiedersi quanto senso abbia, continuare a sconfiggere la povertà nel mondo, qualunque ne sia la causa scatenante, a discapito dello stato di salute di un pianeta che sembra ormai essere arrivato al limite di sopportazione. L’intervento dell’essere umano è troppo invasivo da decenni, e di tempo per invertire la rotta ne rimane sempre meno.
Le accuse di Greenpeace nei confronti di ENI
Soprattutto se le grandi imprese, continuano impunemente ad ignorare il problema in nome del profitto. Ha fatto molto discutere infatti nelle ultime settimane il duro attacco che Greenpeace ha riservato ad ENI, Ente Nazionale Idrocarburi, una vera e propria multinazionale controllata dallo stato italiano. È stato infatti pubblicato un rapporto dall’associazione dal titolo inequivocabile: “Cosa si nasconde dietro l’interesse di ENI per le foreste”.
Uno studio in cui si accusa ENI di aver effettuato degli investimenti “fittizi” per la riforestazione, che non incidono realmente nella protezione del nostro ecosistema, e avevano l’unico scopo di placare le proteste di tutte le associazioni nel mondo contro l’inquinamento prodotto dalle multinazionali.
In questo contesto, diventa di fondamentale importanza la nuova legge Ue sulla biodiversità approvata recentemente dalla Commissione Ambiente. Nella proposta viene messa nera su bianco ad esempio la necessità di investire in un progetto europeo che si occupi del rinverdimento urbano, per iniziare un lungo processo che consenta anche alle città di poter riacquisire il verde come uno spazio indispensabile alla sua stessa esistenza. D’altronde fino ad adesso, le nazioni del vecchio continente, non sono riuscite in alcun modo a raggiungere gli obiettivi di sostenibilità ambientale che loro stesse si erano poste per il 2020.
Non certo una novità, considerato come e in che modo gli accordi di Parigi continuino ad esempio ad essere disattesi da parte di coloro che a conti fatti, erano stati i primi promotori di questa intesa.
Resta il fatto che qualunque studio andiamo a visionare che si occupi di analizzare lo stato di salute del nostro ecosistema, ci mette di fronte al fatto che il mondo sta morendo e la natura si ribella, e di tempo per mettere fine a questo processo distruttivo, ne rimane sempre meno.
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