Alcuni filmati diffusi da un gruppo di hacker ci ricordano quanto vale la vita di un detenuto all’interno delle carceri iraniane
Filmati divenuti pubblici che mostrano la violenza delle forze dell’ordine iraniane all’interno delle carceri del paese. A denunciare questi episodi è Amnesty International che, con un comunicato pubblicato nella data del 25 Agosto 2021, racconta di come alcuni giorni fa siano stati resi pubblici alcuni video, diffusi da organi di informazione indipendente nella nazione. I filmati in questione sono stati consegnati ai media da un gruppo conosciuto come “La giustizia di Ali”, che è riuscito ad hackerare le telecamere di sicurezza della prigione di Evin, che si trova a Teheran, capitale dell’Iran. Molti funzionari iraniani, spiega Amnesty, non hanno negato ma riconosciuto la veridicità delle immagini, in uno scandalo che ha portato Mohammad Mahdi Haj, direttore dell’organizzazione del sistema penitenziario, a pubblicare un post su Twitter in cui ha annunciato provvedimenti nei confronti dei poliziotti coinvolti, precisando in seguito che si tratta in ogni caso di alcune “mele marce” che verranno presto rimosse.
Nei video diffusi, che sono in tutto sedici, si vedono gli agenti penitenziari di Evin picchiare più volte i detenuti; ma non solo: si notano celle sovraffollate e condizioni igienico-sanitarie nulle per chi vive in isolamento. Per Heba Morayef, direttrice di Amnesty International per il medio oriente e Africa del Nord, è un fatto positivo che questi filmati siano venuti fuori, permettono di comprendere cosa accade all’interno delle carceri iraniane, anche se ciò che ci è permesso di vedere nel video è soltanto “la punta dell’iceberg”. Amnesty ricorda infatti che “nei centri di detenzione iraniani la tortura è praticata sistematicamente. Tra i metodi documentati da Amnesty International figurano le frustate, le finte esecuzioni, il waterboarding (semi-annegamento), la violenza sessuale, la sospensione per gli arti, l’ingerimento forzato di sostanze chimiche e il diniego di cure mediche”.
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A questo link, il comunicato ufficiale pubblicato da Amnesty International