La vicenda dei lavoratori Amazon si sta aprendo a spiragli positivi per la legittimazione dei diritti dei lavoratori
Ormai è impossibile girare per le città senza vedere la nota freccia che contrassegna che “lì è passato Amazon”. La si vede nelle cassette della posta, nei distributori automatici per le consegne, sui pacchi che i riders portano in giro. E non c’è cittadino occidentale che non abbia un’opinione su Amazon: o la si ama o la si odia. C’è chi fa ricorso alla multinazionale dei servizi per acquistare qualunque prodotto, fino allo spazzolino da denti. Al contrario, altri consumatori sono solidali con le lotte portate avanti dai lavoratori e boicottano l’azienda.
Il marzo scorso si è assistito al primo sciopero mondiale dei lavoratori della multinazionale fondata da Jeff Bezos, che ha coinvolto circa 40.000 dipendenti italiani della logistica. Alla base delle proteste c’era il famoso algoritmo Amazon, che scandisce tutti i tempi di lavorazione, senza tenere presente le soste e i potenziali inconvenienti dovuti a traffico o altri fattori contingenti. L’algoritmo incriminato fornisce informazioni all’azienda sulle prestazioni dei lavoratori, ed in base ad esse, decide di incrementare o ridurre il carico di lavoro, con ovvie conseguenze sulla retribuzione. Ma l’algoritmo non è un’entità a se stante, dietro c’è la programmazione umana che ha calibrato le esigenze della multinazionale con quelle dei lavoratori, finendo per avvantaggiare inesorabilmente le prime. In più, la maggior parte dei contratti stipulati con Amazon sono precari, anche se il lavoro è continuativo nel tempo. Lo sciopero è stato indetto dai lavoratori stessi con il supporto dei sindacati e delle associazioni dei consumatori, che per la giornata del 22 marzo scorso hanno chiesto ai clienti Amazon di esprimere solidarietà nei confronti dei lavoratori e boicottare gli acquisti.
Un segno forte che però non ha comportato sostanziali modifiche al lavoro: l’algoritmo continua a dettare legge e, anche se non ne è consapevole, scandisce dei ritmi di lavoro insostenibili. E’ difficile scalfire questa logica, che in nome del profitto viola i diritti dei lavoratori e le norme sul contenimento della crisi climatica. Ma Amazon può, con il supporto dell’incedere dell’e-commerce, che la multinazionale stessa ha inaugurato, e che, nonostante la concorrenza, continua a cavalcare. Chi sceglie di acquistare un prodotto su Amazon anziché in un negozio fisico dovrebbe interrogarsi sulla filiera che ha consentito ad una multinazionale con milioni di dipendenti in tutto il mondo di offrire un prodotto ad un prezzo inferiore di quello stabilito in un punto vendita. E’ una logica contraria alle norme basilari dell’economia, se non si tiene in considerazione che quello scarto di prezzo che consente il risparmio viene pagato sulla pelle di lavoratori, ambiente, esercizi commerciali. Chi vince non è sempre il più bravo, questa è una retorica da retrogrado “sogno americano”.
I lavoratori si sono accorti da tempo che la “fabbrica dell’oro” dispensa il proprio profitto solo a chi si trova in cima alla piramide, ma continuano a lavorare per la multinazionale. Le necessità economiche glielo impongono. I sindacati, in occasione dello sciopero, hanno sviscerato punto per punto le richieste dei lavoratori: una trattativa sugli orari e i ritmi di lavoro dei dipendenti della logistica e dei guidatori; la verifica della contrattazione dei turni di lavoro; la stabilizzazione dei tempi determinati e dei lavoratori interinali e il rispetto delle normative sulla salute e la sicurezza. Tutte rivendicazioni che dovrebbero essere garantite per legge. Ed invece sono ancora sul piatto.
I turni massacranti e la ripetitività del lavoro creano seri problemi di salute ai dipendenti. Francesca Gemma, 30 anni, dipendente dello stabilimento Amazon di Passo Corese dal 2017 racconta a Repubblica: “Quando sei addetto al “piccaggio” (termine riadattato dal verbo inglese pick, raccogliere) devi fare lo stesso movimento per otto ore, dentro una specie di gabbia. Non ci sono alternative. Nel giro di qualche giorno arrivano dolori alle braccia, alla schiena, alle ginocchia”. Giampaolo Meloni ha 38 anni, vive a Piacenza e lavora in Amazon dal 2012: “Le fasi del lavoro sono preimpostate. Il sistema è guidato da un algoritmo, che chiede numeri. A chi sta sopra non interessa se quei numeri siano ottenuti con le buone o con le cattive. Il potere è nelle mani di questi manager, ragazzi di 25-30 anni appena laureati, che a volte decidono di usarlo anche in modo intransigente e pericoloso“.
Queste sono solo due testimonianze di chi lavora nella logistica. A questi racconti vanno aggiunti quelli dei riders, che grazie all’algoritmo, lavorano sempre al limite delle prestazioni personali. Ma forse si intravede un soffio di cambiamento. Il 15 settembre 2021 Amazon e i sindacati italiani del settore logistico hanno firmato un protocollo d’intesa in cui le parti si impegnano a costruire un confronto attraverso incontri periodici sui temi caldi del settore e verifiche sull’applicazione del contratto collettivo. I sindacati definiscono questo passo come un “momento storico” per le rivendicazioni dei lavoratori. Fino a quel momento la multinazionale era stata restia a far entrare le rappresentanze sindacali all’interno dei magazzini. Ora questo segno di apertura fa intravedere un cambiamento, che si auspica sia concreto. Scrivono i sindacati: “L’accordo consentirà di avviare trattative su temi organizzativi come orari, turni, carichi di lavoro, su elementi normativi come il corretto riconoscimento dei livelli di inquadramento, sulle materie di salute, sicurezza e prevenzione sul lavoro, sulla formazione e sui temi economici come il premio di risultato, incentivi e particolari maggiorazioni. Le trattative su questi temi saranno possibili anche a livello territoriale”.
Amazon: c’è chi la ama e c’è chi la odia. Decidere da che parte schierarsi non ha a che fare con la libertà di pensiero, dipende solo da che punto di vista si osserva la vicenda.
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