Ciò a cui l’inchiesta del Senato si riferisce sono le fake news e i post di odio etnico in Etiopia e Birmania. La fonte è un ex dipendente addetto al controspionaggio della multinazionale
Facebook, come multinazionale che sin dall’inizio si è proposta l’obiettivo di creare reti di condivisioni, dovrebbe implementare sistemi di controllo maggiori sulla natura dei messaggi che vengono diffusi. Non è la prima volta in cui la multinazionale finisce nell’occhio del ciclone per aver, indirettamente, consentito la circolazione di messaggi contrari a tutti i diritti umani.
Focus on Africa, in un articolo del 10 ottobre firmato da Fulvio Beltrami, racconta delle scioccanti rivelazioni di Fances Haugen, ex Product Manager di Facebook, sottoposto ad un interrogatorio da parte del Comitato del Senato americano per il commercio, la scienza e i trasporti.
L’ex dipendente Facebook ha rivelato come la multinazionale sia “troppo” tollerante nei confronti dei regimi dittatoriali, che strumentalizzano la piattaforma social per diffondere odio etnico e fake news. Nell’articolo, Beltrami ricorda come questi due contenuti siano stati fondamentali per l’ascesa dei fascismi e per giustificare le leggi razziali contro gli ebrei.
Se i metodi sono simili, anche le conseguenze potrebbero andare nella stessa direzione. Al centro della testimonianza di Haugen si trovano i casi di Etiopia e Myanmar (Birmania).
Si legge nell’articolo che riporta la testimonianza: “I contenuti eversivi diffusi dai due regimi e dai loro proxy e sostenitori anche tramite falsi account Facebook, vengono amplificati a livello planetario dagli algoritmi “Like”, dalle condivisioni e commenti che generano ulteriore visibilità agli incitamenti alla violenza in Myanmar dove i militari sequestrano persino i bambini per ricattare gli oppositori o in Etiopia, lacerata da profonde divisioni regionali ed etniche. Sono proprio gli algoritmi utilizzati da Facebook ad amplificare queste campagne mediatiche“.
Haugen punta il dito contro Facebook che, in assenza di azioni di opposizioni ai messaggi, nella prassi tollera e quindi avalla questo tipo di diffusione. Allo stesso tempo si ricorda che la multinazionale ha dichiarato di aver aumentato i controlli sui profili, e che i messaggi, dal 2013 ad oggi, sono molto più controllati. Asserzione contraddetta dalla testimonianza di Haugen.
L’ex dipendente Facebook, oltre al ruolo manageriale, era direttore del controspionaggio dell’azienda, quindi voce autorevole in tema.
Haugen identifica le criticità di Facebook nel controllo dei messaggi di odio etnico: la prima riguarda la carenza dei software di traduzione dagli alfabeti diversi da quello latino; la seconda comprende la penuria di personale addetto ai controlli, che inevitabilmente finisce per far passare liberamente messaggi di genocidio, ed a farne proliferare le visualizzazioni.
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L’azienda, dal canto suo, ribadisce tentando di screditare Haugen: “La testimonianza di Haugen presso il Senato ha un valore limitato. Haugen ha lavorato per la nostra azienda per meno di due anni. Non ha avuto rapporti diretti, non ha mai partecipato a riunioni decisionali con dirigenti di livello dirigenziale e non lavorava direttamente sull’argomento in questione”.
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Le dichiarazioni di Facebook sull’ex dipendente sembrano voler sottolineare che Haugen aveva all’interno dell’azienda un ruolo marginale e che non poteva essere a conoscenza di determinati metodi; strano per un ruolo manageriale di alto livello e direttivo del controspionaggio.
A questo link l’articolo di Focus on Africa