Il peso dei rifiuti in Italia è rappresentato solo in piccola percentuale dagli scarti urbani; la maggior parte deriva dalle attività economiche
«È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasferire calore da un corpo più freddo a uno più caldo senza l’apporto di lavoro esterno». Questa definizione che in sintesi parafrasa il secondo principio della termodinamica è fondamentale per comprendere le logiche di riciclo e riuso.
Quando si parla di riciclo, si mette in atto a tutti gli effetti una trasformazione, non un’eliminazione. L’idea comune del trattamento green dei rifiuti è che essi possano magicamente sparire dalla faccia della Terra. Ma non è così, e lo conferma la legge della termodinamica. È un meccanismo a catena. Per trasformare un rifiuto serve un apporto di lavoro e di energia che creerà altri rifiuti.
Questo è un meccanismo che serve a comprendere meglio perché dai rifiuti è difficile uscire. Un articolo di Greenreport, datato il 17 dicembre 2021, riporta che solo una piccola percentuale dei rifiuti in Italia proviene dagli scarti domestici; la maggioranza deriva dalle attività economiche.
E questo perché nel nostro Paese, a differenza ad esempio di Francia e Germania, c’è una forte carenza di impianti di chiusura del ciclo dei rifiuti. Che significa chiudere il ciclo dei rifiuti? L’economia circolare, modello ormai di riferimento per una produzione sostenibile, differisce dall’economia lineare. Quest’ultima comprende le fasi della produzione fino allo scarto, cioè la creazione di rifiuti; ma se si trasforma la linea in un cerchio, in questo modo si avrà modo di dare nuova vita ai rifiuti e reimmetterli nel ciclo produttivo.
Ma anche questo lavoro ha dei costi, non solo in termini economici. Come si è visto in precedenza la trasformazione in sé produce altri rifiuti, per cui è essenziale che tutte queste variabili vengano prese in considerazione e trattate come di dovere.
Il Ref ricerche fa delle osservazioni in merito: “I dati Eurostat confermano come la principale categoria di rifiuto prodotto dalle attività economiche sono proprio i rifiuti decadenti dal trattamento dei rifiuti. Questa evidenza si presta ad una duplice lettura: da un lato, rappresenta l’esito di un modello di gestione improntato alla massimizzazione del recupero di materia; dall’altro lato, sottende una “ridondanza” di trattamenti in risposta alla carenza di impianti di chiusura del ciclo”.
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Quindi, in sostanza, anche se non possono esistere impianti industriali a “rifiuti zero” (seconda legge della termodinamica), con la tecnologia si può contribuire notevolmente ad abbatterli, con l’utilizzo ad esempio dei termovalorizzatori, o altre tecnologie che riducano i rifiuti sul nascere, diminuendo così il carico di lavoro della trasformazione e del riciclo.
Ma in Italia è consuetudine non correre rischi e non scommettere sul nuovo; la politica tradizionale delle amministrazioni locali preferisce la maggior parte delle volte tenersi i sistemi poco efficaci piuttosto che investire con un certo margine di rischio.
Conclude il Ref: “Soprattutto dal confronto con la Germania, è evidente che al nostro Paese paiono mancare soluzioni tecnologiche che ne riducano i volumi (di rifiuti) in principio, come l’essicazione e la riduzione delle sostanze secche nel trattamento dei fanghi, ma anche forme di recupero dei nutrienti e del fosforo in sito e il riutilizzo delle acque reflue. Quindi, parte della risposta a queste questioni va ricercata nell’annosa difficoltà a disciplinare la materia”.