A parere del direttore della “Society for international development” Stefano Prato, la crisi alimentare si risolverebbe eliminando il più possibile la specializzazione dei Paesi a basso reddito
I numeri parlano chiaro: nel 2019 le persone denutrite erano quasi 690 milioni (circa l’8,9% della popolazione globale), mentre due miliardi di persone (il 25,9% della popolazione globale) hanno sperimentato la fame o non hanno avuto accesso a cibo adeguato per qualità e quantità. Per il 2020 le stime riportano numeri tristemente in aumento, la pandemia ha fatto da detonatore di un sistema di equilibri economici evidentemente già fallimentare.
Quindi la questione della denutrizione nel mondo torna ad essere molto seria, e vanno quanto prima trovate soluzioni che non siano “appiccicate” o transitorie, ma va rivisto il modello generale. Ad esserne certo è Stefano Prato, direttore della “Society for international development” e coordinatore del “Civil society financing for development group”, una rete nata nel 2002 che riunisce oltre 800 associazioni da tutto il mondo tra cui organizzazioni non governative e movimenti dal basso.
In un’intervista ad Altreconomia Prato spiega: “Per la Fao il problema dell’accesso al cibo è associato al rallentamento delle global value chain e del commercio internazionale. Nell’analisi dell’agenzia delle Nazioni Unite, quindi, il problema dell’accesso al cibo è legato a un rallentamento del normale funzionamento del sistema del commercio globale”.
È importante riportare che il global value chain è un sistema economico della nuova globalizzazione, basato sulla specializzazione della produzione dei Paesi a basso reddito. In questo modo, grazie ad una catena di esportazione, ogni Paese dovrebbe acquistare ciò di cui necessita. Ma nella prassi le cose non sono così semplici né così convenienti per i Paesi a basso reddito, che in questo modo non fanno altro che aumentare la loro dipendenza dagli altri Paesi.
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Continua Prato, con una visione che si distacca notevolmente da quella della FAO: “A a mio avviso la diagnosi è un’altra: il sistema economico dominante ha spinto molti Paesi, soprattutto quelli in via di sviluppo, verso una massiccia specializzazione e un modello economico basato sulla produzione di pochi prodotti destinati prevalentemente all’esportazione per poi dover importare tutto il resto. Un sistema che crea dipendenza“.
L’autosufficienza nella produzione alimentare è necessaria per invertire il senso di marcia, che in caso contrario aumenterà radicalmente il numero di persone denutrite nel mondo. E la pandemia c’entra poco, le basi erano già state gettate in precedenza: “La crisi causata dal Covid-19 avrebbe potuto essere l’occasione per riconoscere che abbiamo bisogno di sistemi alimentari più forti, più resilienti e più capaci di combattere anche condizioni climatiche avverse. E soprattutto che creano crescita economica interna e minor dipendenza dall’importazione di prodotti alimentari.”
“Abbiamo bisogno di garantire la sovranità alimentare. Il fatto che, anche nei mesi passati, la Fao abbia cavalcato nuovamente questa idea di una specializzazione estrema nella produzione di generi alimentari è preoccupante. Un Paese che ha un vantaggio competitivo perché ha delle condizioni territoriali, ambientali o climatiche che gli consentono di valorizzare al massimo una particolare produzione diventa poi dipendente da tutto il resto”.
Quindi invertire i modelli produttivi che i Paesi ad alto reddito impongono a quelli a basso reddito può essere la migliore strada da perseguire. Ma per fare ciò, conclude Prato, è necessario avere “sistemi territoriali che siano in grado di corrispondere la produzione di cibo adatta a ciascun territorio e alla sua popolazione. E questo non si risolve con una maggiore produzione globale ottenuta grazie ai fertilizzanti e le global value chains, ma mettendo al centro i sistemi alimentari territoriale e la sovranità alimentare“.