La guerra scatenata da Putin contro l’Ucraina sta mandando in crisi tutto il sistema legato all’agroalimentare e in particolare al mais e al grano tenero. Ma, fa notare Greenpeace, la soluzione che le grandi lobby dell’agribusiness vorrebbero attuare rischia di essere pericolosa
Sul sito ufficiale dell’associazione ambientalista nessuno si nasconde dietro un dito riguarda la necessità di trovare una soluzione alla crisi in cui versa il comparto agroalimentare italiano, trovatosi esposto a causa della guerra di Putin contro l’Ucraina. Ci sono però alcune considerazioni che è opportuno fare e che riecheggiano in parte anche altre posizioni riguardo la soluzione al problema delle bollette di luce e gas.
Secondo Greenpeace infatti, non si può cercare di tamponare la situazione che si è creata chiedendo di sospendere gli “obiettivi europei per rendere più sostenibile il settore contenuti nella strategia europea sulla Biodiversità e Farm to Fork, come sta facendo il Copa-Cogeca (la federazione europea di lobbying che comprende le associazioni di agricoltori e cooperative agricole), o aprire i nostri porti a mais OGM o contenente residui di pesticidi vietati in Europa come chiedono i “cerealisti” italiani (Anacer)“. Anche perché la crisi che attualmente viviamo e che riguarda il mais e grano tenero solo in parte è dovuta alla guerra.
L’associazione fa per esempio riferimento alla più recente analisi ISMEA riguardo l’aumento dei prezzi dei cereali. Nell’analisi è chiaro infatti come l’aumento dei prezzi non sia da imputare completamente alla guerra ma in realtà i grandi cambiamenti climatici che si sono trasformati in una estrema e pericolosa siccità in Canada (il più grande esportatore di grano duro del mondo in pratica), ai cambiamenti climatici si sono aggiunti gli aumenti relativi ai costi dell’energia e la speculazione in borsa.
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Il problema più grosso riguarda il mais e non tanto il grano tenero per cui Ucraina è il secondo fornitore del nostro Paese garantendoci il 20% del totale. Ma se tanti cittadini si sono fatti prendere dalla psicosi e sono corsi a fare scorte di olio di semi, a doversi preoccupare effettivamente sono in realtà gli allevatori che ormai, sempre secondo l’analisi di ISMEA, sono strutturalmente dipendenti dal mais importato.
La situazione degli allevatori è però un segnale di qualcosa che non va a livello europeo: “decenni di zootecnia intensiva“. Come scrive infatti Greenpeace, “oltre due terzi dei terreni agricoli europei sono destinati all’alimentazione animale, e non al consumo diretto umano. Un’estensione enorme, che però non basta ad alimentare il settore zootecnico, alla quale si aggiungono i terreni coltivati oltreoceano, spesso a discapito di foreste ed ecosistemi naturali essenziali per tutelare la biodiversità e difenderci dai cambiamenti climatici“.
Occorre dunque rivedere in toto il sistema della zootecnia in Europa e dell’argroalimentare in generale per poter avere spazi da coltivare e invertire anche le due percentuali fondamentali del comparto: dei cereali utilizzati in Europa ben il 60% è usato per gli animali e neanche il 30% per il consumo umano. “E’ necessario modificare cosa produciamo e cosa consumiamo a livello europeo, e non spingere a verso un’ulteriore intensificazione della produzione come chiedono le lobby agricole“.