FederBio: riconvertire per combattere la siccità e la speculazione

La guerra ha riacceso i riflettori sull’emergenza agroalimentare ponendo l’Europa al centro della crisi. Quali scelte non sono rinviabili?

agricoltura green
Agricoltura green (Foto Silvano Rebai on Adobe)

Da tre settimane, ovvero dall’inizio del conflitto in Ucraina, l’Europa ha dovuto improvvisamente cambiare l’agenda delle sue priorità, riscoprendo in chiave contemporanea alcune delle calamità assenti dal cuore del continente da circa ottant’anni. Certo, ci si riferisce a temi problematici di carattere strutturale che non hanno pagato l’assenza di soluzioni, tutt’altro; è che i rimedi, rivelatisi insostenibili sul lungo termine, si sono scontrati con l’incompatibilità di un mondo che cambia, in stabile crisi climatica e demografica.

Le soluzioni – la storia insegna – sono state formulate sovente da una logica di mercato che i tempi più recenti amano chiamare “globalizzazione”, dietro la quale si celano scriteriate dinamiche economiche valide esclusivamente per il profitto fine a se stesso. Evidentemente era necessario un conflitto bellico “vecchia maniera” per convincere i governi europei a riportare sul banco della questione il tema della sostenibilità agroalimentare – certo, in termini emergenziali – al centro dell’area più rappresentativa dell’Occidente.

La questione è declinata non in termini netti di disponibilità delle risorse, bensì dalla sopraggiunta interruzione (o in via di interruzione) degli accordi commerciali con la Russia. Ciò ne ha rivelato tutta la dipendenza europea dall’ampia produzione di merci e dalla disponibilità di risorse di prima necessità annoverate nell’import comunitario. C’è chi grida al razionamento e chi partecipa all’assalto degli scaffali nei supermercati per accaparrarsi farina e pasta, a rischio esaurimento.

Non possiamo parlare di assalto ai forni di manzoniana memoria, ma per comprendere l’importanza che hanno ancora certi prodotti, basti pensare che il mancato o ridotto approvvigionamento di pane e cereali da Ucraina e Russia, è stato alla base delle Primavere arabe, tra il 2010 e il 2011, in alcuni paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. L’odierna escalation bellica va dunque ad aggiungersi alle criticità della crisi pandemica e alla gravità della crisi ambientale.

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L’industria agroalimentare ha recepito tutti questi fattori con la diminuzione delle materie prime, la difficoltà di movimento delle merci e infine l’aumento di prezzi; questo accade proprio nel momento in cui si stava avviando in Europa, compresa l’Italia, un percorso non più frenabile di transizione ecologica. Ora, ipotizzando un piano di autonomia, di “autarchia” – per usare un vecchio termine – alimentare, occorre riconsiderare i vincoli ambientali che impongono la riduzione di pesticidi e di fertilizzanti chimici, l’aumento dell’agricoltura biologica e delle quote verdi “a riposo”.

In Francia, il presidente Macron invoca la “sovranità alimentare”. In Italia, il presidente del Consiglio dei Ministri Mario Draghi lascia intendere che nulla deve fermare la produzione, qualora si voglia raggiungere l’autosufficienza: così come nel contesto energetico, si rischia di dover rivedere le norme ambientali in vigore, rinunciando a fette della difesa per la biodiversità e dell’integrità (il 10%, secondo la strategia europea Farm to Fork) per ogni superficie agricola.

Lo scossone sul mercato italiano che lascia intravedere la carenza del grano non è attribuibile alla crisi ucraina, in quanto “il dato di importazione di grano ucraino nel nostro paese è intorno al 6%“, come afferma Maria Grazia Mammuccini, presidente di FederBio. L’origine di una certa paura è di altra natura, ovvero speculativa, per cui ben prima del conflitto si era manifestato l’aumento dei costi energetici.

Nonostante tutto, la situazione geopolitica non dimostra l’assenza una via d’uscita: è l’occasione buona per attivare un processo di rigenerazione dei processi produttivi, nell’ottica dell’accorciamento delle filiere. La filiera corta deve rappresenta il terminale di uno spartiacque verso una mentalità nuova, impegnata a elaborare un modello produttivo nella direzione di “sistemi di consumo alimentare ed energetico a livello locale, senza scivolare in un protezionismo che chiude le frontiere”.

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