Nonostante convenga la sostenibilità, la dispersione pianificatoria ha minato la fiducia della finanza verso gli investimenti. Ecco i motivi
La crisi ucraina, oltre le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti, ha messo allo scoperto una voragine culturale, celata nel cuore dell’Occidente: quella della globalizzazione dei mercati, dell’accentramento finanziario, della macrodistribuzione delle materie prime ad uso di una industrializzazione oltremodo insostenibile, calibrata dall’azione mediatrice dei governi subalterni ad essa.
Se si è andata avanzando una certa fretta per correre ai ripari verso le lacune produttive del contesto europeo, si sta forzando altresì un processo, in prima istanza, rigenerativo delle risorse (e del loro allocamento), il quale, poco prima della crisi, prediceva dei termini temporali tanto avanzati quanto non sufficienti – per alcuni Stati – per arrivare puntuali alla conversione energetica. Una svolta culturale che ha coinvolto anche l’Italia, le cui premesse di un progetto nazionale non avrebbero dovuto sorprendere – con impreparazione, dunque – di fronte alla potenziale escalation di guerra odierna.
In Italia, un input concreto verso l’adozione sistemica delle energie rinnovabili risale al 2011, generato da dinamiche di portata mondiale; ma è bastato un niente per arrestare questo processo, danneggiato per “colpa della mancata pianificazione e di una norma che prevedeva incentivi costanti nel tempo invece che indicizzati alla riduzione dei costi, come in Germania”, come ha dichiarato il consulente energetico Alex Sorokin, intervistato dal Fatto Quotidiano.
Una delle cause di questa possibilità abortita, è stata la scarsa lungimiranza nella prospettiva dei ricavi. Nel 2011, l’Italia ricopriva il primo posto al mondo per potenza fotovoltaica installata in un anno, 9mila megawatt, ben oltre rispetto a quanto fatto in Spagna, Francia e Cina; la potenza è giunta a 10.600 Mw di potenza con l’apporto dell’eolico. Col Conto Energia, il governo istituiva una tariffa ventennale che entrava in competizione con il prezzo di mercato di allora, incentivando così un boom di richieste che è stato definitivamente bloccato nel 2013.
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Da qui, la pianificazione energetica si è andata disperdendo, con iter autorizzativi lentissimi e con l’aumento delle bollette che ha condannato gli utenti ha pagare le spese di quell’impresa. Ad oggi la tecnologia di stoccaggio energetico proveniente dalle rinnovabili risulta ancora molto costosa e ciò non ha entusiasmato l’iniziativa di approvvigionamento alternativo, anzi il fabbisogno nazionale di gas sarebbe addirittura calato nel giro dei successivi tre anni, innalzando, di conseguenza l’import dalla Russia.
La crisi che colpiva l’Alcoa e che ha costretto l’allora governo Berlusconi a un decreto di salvataggio, ha definitivamente affossato i finanziamenti verso soluzioni green; e anche la tariffa dell’energia sostenibile era nel frattempo diventata fissa, anziché indicizzata alla riduzione dei costi, come in Germania. Nonostante il raddoppio degli impianti, l’abbondante potenziale delle risorse ha incrementato la relativa produzione verde, ma ha avuto anche un effetto collaterale: quello legato alla scarsa – se non assente – manutenzione, e alla paradossale dipendenza della componentistica di provenienza soprattutto asiatica.
Non c’è dubbio che il fotovoltaico e l’energia eolica siano decisamente meno costosi delle fonti fossili, eppure l’incertezza dei ricavi pesa sulla valutazione degli investimenti e su un ragionato monitoraggio dell’attuale flusso energetico nazionale. È opportuno che il primo passo lo faccia lo snellimento burocratico, agevolando la sostituzione degli impianti oramai vecchi e spianando la strada all’abbattimento degli attuali costi, ancora troppo altri, come quelli dello stoccaggio.