Uno studio tedesco getta luce sui danni dell’innalzamento delle temperature nelle coltivazioni di caffè kenyote. Cosa sta succedendo
È bene ribadirlo, la crisi climatica è anche e soprattutto un’emergenza alimentare. Tali termini, così declinati, non debbono lasciare spazio ad equivoci: il cambiamento climatico incide sull’attuale collocazione mondiale delle risorse – qualunque esse siano – non di certo perché esposte al rischio di riduzione (o addirittura di sparizione) delle stesse, fine a se stesso; esso matura un pericolo che va direttamente a radicarsi nell’approvvigionamento dei beni destinati alla nutrizione della popolazione mondiale, ovunque i suoi appartenenti si siano stabiliti.
Gli esempi, in tal senso, sono molteplici, ma due fra tutti sono emblematici: l’acqua e il grano. Il primo – non c’è bisogno di dirlo – già rappresenta l’oggetto del contendere dei conflitti situati in diverse aree del mondo e sin d’ora anticipa le premesse su un futuro carico di calamità, capace di fiaccare i sistemi produttivi e le nazioni delle zone più sviluppate, come l’Occidente; il secondo, alla stregua del primo, sta mettendo in discussione le maniche larghe delle regole della globalizzazione, comunque governata da due pesi e due misure, a danno delle fonti più sottosviluppate o in via di sviluppo.
Non può solamente la ridistribuzione delle aree estrattive di certe risorse risolvere, anche parzialmente, il problema: l’organizzazione dietro specifiche produzioni è agganciata alle economie locali, le quali non possono fare a meno di essa, se non al prezzo di carestie, guerre ed esodi di intere comunità. La crisi alimentare, rinfocolata dall’emergenza del clima, dichiara vecchie e nuove disparità nella distribuzione delle risorse, premiando (fino ad ora) talune aree del mondo tendenti al consumo ipertrofico e condannando altre popolazioni alla fame di disponibilità, nonché alla fame vera e propria.
Sul piatto della discussione entra ora lo stato di salute della produzione di caffè, in particolare la sopravvivenza delle colture di caffè Arabica. Rilanciato dall’Economist e – in Italia – dall’Asvis, uno studio tedesco pubblicato su Plos One descrive in tutta la sua drammaticità un’emergenza che a lungo andare trainerà verso conseguenze irreversibili. Parliamo, certo, di un bene che potrebbe definirsi – per la cultura e la tradizione dei popoli del mondo – un lusso necessario, fattosi vitale, come già detto, per l’economia delle comunità che lo producono e al tempo stesso corrispondenti ai gruppi economici più svantaggiati.
Nello studio, si prevede il dimezzamento delle suddette coltivazioni di caffè entro il 2050, a causa del riscaldamento globale. L’indagine prende in esame un mix tra fattori climatici e impatto del suolo, il quale definisce lo stato dell’arte sulla idoneità territoriale del caffè Arabica, ma anche dell’anacardio e dell’avocado; viene evidenziata la netta sensibilità ai cambiamenti climatici da parte delle piantagioni di caffè, una vulnerabilità che senza eccezioni patiscono tutte le aree produttrici, ma in particolare il monte Kenya, tra i primi della lista dei maggiori produttori del pianeta.
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I chicchi di caffè crescono, in questa zona del mondo, su altitudini comprese tra i mille e i duemila metri nelle regioni equatoriali, e con temperature di 18-21°C. L’innalzamento delle temperature di 1,1°C, con picchi durante il giorno di 25°C sta mettendo a rischio ciò che rappresenta il 60% della produzione mondiale di caffè e oltre il 98% di quella keniota: fiancheggiato dall’alta umidità, sta favorendo la crescita spontanea di funghi che infestano mortalmente le piante.
Un danno ambientale coincidente a un danno economico che colpisce il reddito di un nono della popolazione kenyota, complessivamente di 54 milioni di abitanti. Privi di sussidi da parte dello Stato, sono i numerosi piccoli agricoltori a patire la calamità; una soluzione potrebbe essere quella di spostarsi ad altitudini più elevate, ma ciò danneggerebbe le già presenti coltivazioni di tè, produzione altrettanto strategica per il Kenya.
Il governo del Kenya sta correndo ai ripari finanziando alcune alternative sostenibili in sperimentazione al Coffee Research Institute, tra cui la piantumazione di alberi per fare ombra alle piantagioni di caffè e la coltivazione alternativa di Robusta, più resistente del’Arabica. Da quest’ultima si sta testando un ibrido, l’Arabusta, che garantirebbe il sapore dell’Arabica; oppure si sta studiando un tipo selvatico di caffè che a tutt’oggi però garantisce delle rese troppo inferiori rispetto alle varietà esistenti in commercio.
Alcune delle grandi aziende produttrici kenyote stanno salvaguardando le piantagioni attraverso l’irrigazione a goccia e a pioggia, ma stanno pensando al trasferimento presso altre aree, compresi gli Stati vicini. Insomma, di fronte all’irreversibile fenomeno dell’innalzamento climatico non possiamo che sperare nell’innovazione, la chiave “per rispondere alle sfide climatiche”, come sostiene Vern Long, Ceo del World Coffee Research, altrimenti “berremo semplicemente caffè sintetico”.