Di fronte a una cartella esattoriale ingiusta, esiste una prassi per ricorrere a giudizio e tutelarsi, ma non prima di questa spesa. Eccola
Non è un mistero quanto il contributo del cittadino, nei confronti dello Stato, sia in termini economici piuttosto sostanzioso; la pressione fiscale sulle buste paga sia molto alta ed ogni singola entrata sia sottoposta al setaccio erariale. Insomma, se presumiamo inoltre la proprietà di beni mobili (alcuni) e immobili (tutti), le finanze personali che vengono devolute alle cosiddette tasse, sono alquanto ingenti.
È ovvio che ogni cittadino è chiamato a contribuire alla vita e al mantenimento del Paese che egli abita (sebbene, come declama la Costituzione, il dovuto sia regolato secondo le diverse possibilità), ma specialmente in Italia si è avuta più di una volta l’impressione che la corda sempre più tesa del “contratto sociale” tra Stato e cittadini (o almeno una parte importante di essi) si stesse per spezzare.
Cartelle esattoriali, cosa succede se il contribuente vince il ricorso
Un altro personaggio leggendario del bestiario burocratico è rappresentato dalle cartelle esattoriali, un vero spauracchio per quelle persone che sul filo del rasoio delle proprie possibilità si sono ritrovate a non poter assolvere ai propri doveri fiscali. Un problema, dunque; lo è di meno, paradossalmente, per chi evade. Perché, in talune circostanze, da alcune espressioni della burocrazia (alcune, non tutte) bisogna difendersi.
La situazione limite è data quando l’Agenzia delle Entrate richieda il pagamento di tributi in realtà non dovuti. Il prolungarsi del mancato pagamento può concludersi col pignoramento della casa o dei beni. A volte, è sufficiente non aver risposto all’invio di una documentazione specifica per incorrere alla severa sanzione. Verso queste notifiche e i provvedimenti del Fisco ci si può opporre, dimostrando all’Agenzia il suo errore, e alle successive insistenze, rivolgendosi al giudizio di un giudice.
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Ben tre gradi di giudizio consentono al cittadino di evitare un ingiusto salasso; al secondo grado, inoltre, subentra la Commissione tributaria regionale; nel terzo, la Corte di Cassazione. Eppure il processo, secondo la legge – art. 68 Decreto Legislativo 546/1992 – non sospende l’obbligo del pagamento riguardo al presunto tributo eluso. Pertanto, mentre si contesta la pretesa ritenuta illegittima occorre pagare i due terzi della tassa nel caso che il ricorso alla Commissione tributaria provinciale venga respinto.
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Se la Commissione accogliesse parzialmente il ricorso, il contribuente deve pagare nella misura stabilita dalla sentenza; il ricorso respinto in Cassazione comporta invece il pagamento dell’intero tributo. Al contrario, se è il cittadino a vincere il ricorso, si obbliga l’Agenzia delle Entrate a rimborsare quanto sino ad allora ha riscosso e, in più, a risarcire una somma per il danno arrecato.