Si chiama “Deny, deceive, delay: documenting and responding to climate disinformation at COP26 and beyond”, ed è il nuovo rapporto pubblicato da “Institute for strategic dialogue e Climate action against disinformation” contro la disinformazione climatica che si è realizzata proprio nel periodo della COP26 di Glasgow del 2021
Il rapporto si è costruito con una ricerca che è durata 18 mesi e che si è proprio concentrata su ciò che è successo intorno alla COP di Glasgow. Il primo risultato è stata l’evidenza secondo cui “la scienza spazzatura, la tendenza a rimandare le questioni sul clima e gli attacchi alle cifre che riguardano il clima sono diventati mainstream”.
E se una parte della colpa di questa disinformazione climatica viene da una “Community piccola ma concentrata di attori che può valersi di una cassa di risonanza sproporzionata e di un’altrettanto sproporzionato engagement sui social media“ un’altra parte della colpa della diffusione di notizie false sul clima viene proprio dai giganti della tecnologia che si occupano di quelle stesse piattaforme su cui la disinformazione ha galoppato in maniera indecorosa.
Prima di proseguire con l’analisi di quanto emerso occorre fare una prima riflessione. La “Community piccola ma concentrata” in grado di avere una audience gigantesca sui social è in realtà probabilmente uno dei motivi per cui proprio le piattaforme si sono comportate come poi è stato registrato dal report, “amplificando o esacerbando la portata di questi contenuti”.
Quando un contenuto è particolarmente polarizzante, questo genera molto traffico ed è probabilmente proprio il traffico, e quindi i guadagni dovuti agli spazi pubblicitari che sui social vengono venduti, ad aver fatto chiudere almeno un occhio ai giganti della tecnologia. A sua volta, è chiaro che chi ha tutto l’interesse a ritardare le azioni che potrebbero effettivamente avere un effetto sul clima, conoscendo bene questi meccanismi, ha creato la propria batteria di scudieri della disinformazione.
Lungi dall’essere una giustificazione a un comportamento aberrante che mette a rischio la salute globale, è comunque una riflessione che occorre fare prima di entrare più nel dettaglio dell’analisi fatta da ISD. Nel 2021 uno studio condotto dall’Università di Oxford e da UNDP ha dimostrato come gli abitanti del pianeta siano effettivamente preoccupati della crisi climatica riducendo quindi lo spazio per la disinformazione climatica e per chi ancora nega ciò che siamo destinati a sperimentare se non cambiamo rotta.
Ma, nonostante queste posizioni estreme e antiscientifiche si siano posizionate ai margini del dibattito pubblico, esistono ancora e qui crescono come in una sorta di incubatrice di bugie per poi venire rilasciate come un virus.
Lo scopo principale della maggior parte delle teorie che vengono diffuse è distrarre l’opinione pubblica e ritardare le azioni andando anche a mescolare le questioni climatiche con altre altrettanto importanti come per esempio i diritti delle comunità LGBTQ+ per rendere ancora più polarizzata la discussione.
Esistono alcuni pattern riconoscibili nei discorsi che cercano di spostare l’attenzione delle masse anche sui social. Un esempio è il “benealtrismo” che si declina, tra le altre cose, nello spargere l’idea che l’impronta di CO2 di ciascuno di noi sia di poco conto rispetto ad altre forme di inquinamento.
Un’altra azione utilizzata molto spesso è cercare di convincere il maggior numero di persone possibili che lavorare per evitare il disastro climatico porterà a una riduzione del benessere, quando invece è proprio il sistema produttivo e di consumo che viviamo adesso che ci sta portando alla catastrofe.
L’appello che viene dal report ai giganti della tecnologia si compone di 6 azioni: riportare nei termini di servizio e negli standard di community delle società la definizione di disinformazione e mis-informazione climatica; attivare sulle piattaforme politiche specifiche contro i violatori seriali; aumentare la trasparenza e l’accesso ai dati; ridurre i contenuti sponsorizzati e a pagamento delle società che utilizzano combustibili fossili e dai gruppi che distribuiscono disinformazione; assicurare che le piattaforme riescano efficacemente a individuare contenuti vecchi, riciclati e mancanti di contesto; attivare i sistemi di ricerca app basati su immagini per sostenere la ricerca riguardo la disinformazione che diventa virale.
Come abbiamo avuto modo di riflettere all’inizio, per le grandi società della tecnologia che detengono i social che utilizziamo tutti i giorni, si tratta di cambiare sostanzialmente il modo in cui generano profitti dato che, e non è difficile immaginarlo, dietro chi diffonde disinformazione ci sono enormi quantità di denaro da utilizzare. Un denaro però il cui tasso di cambio non può essere calcolato su nessuna Piazza Affari perché è composto dalle vite di tutti noi.