In Cina servirà il patentino per i content creator: prevenzione o censura?

Che in Cina ci sia un problema di libertà di espressione è evidente a tutti, che il governo di Pechino cerchi in qualche modo di imporre ai propri cittadini quello che ritiene essere il loro bene è altrettanto chiaro e lampante ma la questione che riguarda ora alcuni Content Creator e influencer ci mette di fronte a una contraddizione in termini

cina censura
In Cina per fare streaming ci vuole la laurea (foto Unsplash)

Per capire quanto è complicato riuscire a trovare una posizione riguardo quello che sta succedendo ricominciamo dall’inizio. Martedì scorso, ed è una notizia che riportano diverse testate tra cui Fortune, NBC e Business Insider, lo State Administration of Radio and Television insieme al Ministero della Cultura e del Turismo hanno redatto quello che è stato definito un nuovo codice di condotta che va a gestire in qualche modo ciò che succede nei live streaming.

Nello specifico ai Content Creator che si occupano in Cina di determinati argomenti per i quali è prevista una istruzione superiore viene richiesto di mostrare di possedere titoli di studio adeguati per poter parlare di questi argomenti.

A doversi occupare di controllare che i titoli mostrati all’inizio di ciascun video siano autentici devono essere le piattaforme su cui gli influencer diffondono i propri video. Sempre alle piattaforme viene dato il compito di supervisionare e approvare i contenuti prima che questi vengano distribuiti.

Premesso che stiamo parlando delle piattaforme che sopperiscono nel Paese ai social cui i cittadini in pratica non hanno accesso e non di piattaforme come Instagram o Facebook e che quindi sono già in qualche modo una emanazione della volontà di controllo che il Governo centrale cinese attua da sempre nei confronti dei propri cittadini, se non stessimo parlando di content creator in Cina non sarebbe una idea del tutto malvagia.

Almeno non nella parte in cui chi vuole parlare di alcuni argomenti, e la direttiva parla esplicitamente di medicina, finanza e legge, sui social deve dimostrare di essere in grado di parlarne con cognizione di causa e non di fare solo lo stretto necessario per continuare ad avere visualizzazioni, like e sponsorizzazioni a scapito della verità.

Perché, se in Cina è indiscusso che ci sia un problema di libertà dato che sempre nel nuovo codice di condotta viene espressamente vietato qualunque riferimento denigratorio al Partito Comunista e alla tradizione cinese, nello stesso codice di condotta si pretende che gli influencer si comportino secondo alcune regole che potremmo definire di buon senso: non è concesso mostrare horror “eccessivo”, nè mostrarsi provocanti o fare sfoggio in modo sfacciato della propria ricchezza.

Non è neanche concesso di promuovere il bere o il fumare, fare gossip e cavalcare gli scandali e neanche sprecare pubblicamente il cibo. Di nuovo, regole di buon senso. E facciamo una grande fatica a non pensare che si tratti di provvedimenti che hanno una valenza e che veramente potrebbero aiutare i cittadini a mantenere il proprio benessere psicofisico.

Ma proveniendo dalla Cina e trovandosi all’interno di un provvedimento palesemente improntato a chiudere il maggior numero possibile di bocche è facile fermarsi all’idea che anche queste idee siano pura censura.

Dalla nostra parte del mondo siamo abituati all’idea che sui social chiunque possa dire ciò che pensa senza troppe conseguenze ma la verità è che dovremmo ogni tanto sentirci un po’ cinesi forse e adottare su noi stessi alcuni degli spunti presenti nel nuovo codice di condotta dei content Creator in Cina.

Volendo fare un esempio di un argomento che abbiamo trattato di recente, basti pensare ai numeri preoccupanti dei giovani che fanno acquisti online di prodotti contraffatti solo perché li hanno visti in mano oppure addosso a qualche influencer che li sfoggia con apparente noncuranza.

Probabilmente non è un codice di condotta imposto dall’alto, che in alcuni punti ovviamente sa di censura più che di protezione, che dovremmo aspettare di avere, ma questo non significa che non può essere uno spunto di riflessione anche riguardo il modo in cui noi produciamo contenuti e li consumiamo.

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