Giorgio de Finis ci ha accolto al Goethe Institute di Roma, nell’ambito di un ciclo di incontri avviati dal centro studi del museo, e finalizzati ad elaborare teorie e pratiche delle periferie
Nella città di Roma gli ultimi 10 anni sono stati di sperimentazione fuori dall’ordinario per ciò che riguarda il dispositivo museale. Dieci anni fa nasceva il MAAM, il museo dell’altro e dell’altrove. Un museo abitato dai cittadini di Metropoliz città meticcia, un’occupazione abitativa nella quale le opere d’arte del museo d’arte contemporanea hanno assunto anche il ruolo di barricata. Qualche anno dopo è arrivato il MACRO Asilo, nuova gestione del secondo museo d’arte contemporanea di Roma, che si è fatto luogo di accoglienza per artisti ed intellettuali, sempre aperto e gratuito per i visitatori.
Il filo conduttore di questi due musei è Giorgio de Finis, antropologo, studioso, ideatore di questi spazi. De Finis ha costruito il MACRO Asilo sull’impronta dell’esperienza del MAAM. E dal vissuto di due anni al MACRO muove i primi passi il Museo delle Periferie.
“Il museo delle periferie è nato durante la mia direzione del MACRO – spiega de Finis in esclusiva ai microfoni di Consumatore.com – L’assessore alla cultura del municipio VI ha bussato alla mia porta per chiedermi se avevo un’idea per realizzare uno spazio dedicato all’arte ed alla cultura nel quartiere di Tor bella Monaca. In fondo a viale dell’Archeologia c’era una specie di relitto urbano che cercava destinazione d’uso. Io ho proposto il museo delle periferie”.
Come de Finis stesso ammette, la parola periferia, di cui Tor Bella Monaca fa parte, è controversa. “Si cerca tanto di capire la parola periferia. E’ abusata e dà fastidio a molti, ed io per quello l’ho scelta. Le domande sono tante. Cosa vuol dire periferia? Quante periferie ci sono? Ci sono solo le periferie spaziali? La periferia è una questione di tempo? C’è una periferia esistenziale, economica e sociale, di genere?. E’ necessario ragionare. Ed è quello che fa il centro studi del museo. Io credo che la periferia sia un luogo da una parte di resistenza, dall’altra di sperimentazione”.
Tor Bella Monaca è un quartiere della capitale che si trova appena al di fuori del Grande Raccordo Anulare, l’anello stradale che cinge la città, e definisce storicamente i confini tra ciò che è dentro e ciò che è fuori, ovvero tra ciò che è romano e ciò che non lo è. Tuttavia questa “frontiera” circolare con l’espansione fuori dal raccordo delle periferie ha perso buona parte del suo significato originario. “Fino ad ora non c’è mai stato un museo romano fuori dal GRA , ed io rivendico che il museo delle periferie è il primo fuori dal raccordo”.
Ma cosa si intende per museo? In tutto il mondo, i nuovi musei di arte contemporanea hanno modificato radicalmente il senso del dispositivo, e la sua modalità di partecipazione, instaurando un rapporto sempre più dialettico e dialogico con i visitatori.
“Il museo del terzo millennio attraversato è dalle varie forme d’arte e dalle persone. Si crea una specie di sinapsi dove cittadini e gli artisti si incontrano. E’ uno spazio d’incontro con una sua missione molto chiara, non generica. Con un centro studi, noi ci occupiamo del fenomeno urbano su scala globale”.
Nello specifico, “il museo delle periferie ha come mission quelle esperienze che hanno la capacità di farsi città, di essere attrattive. E non parlo solo delle migliaia di iniziative che ci sono nelle periferie per risolvere bisogni, desideri, parlo di quelle cose che riescono anche a far parlare di sé e quindi a valorizzare tutta la città”.
Un progetto ambizioso, dove il museo non è solo contenitore, ma contenuto in sé. “Io non mi occupo di musei generici, mi occupo di progetti che hanno una loro identità, che non è necessariamente quella di essere radicata nel territorio nel momento in cui nasce, però deve avere una sua specificità. Dire, “facciamo un museo a Tor bella Monaca“ è un po’ poco, perché un museo di cosa?”.
Nello specificare cosa il museo significhi per una città e per i suoi visitatori de Finis mostra un’idea chiara: “Per me il museo è uno spazio agonistico, è la riserva indiana della democrazia. Un posto dove si può ancora discutere senza avere quella semplificazione del reale che ci danno i giornali o ci dà la scheda elettorale”.
Il Museo delle periferie è stato battezzato come RIF. Non è un acronimo, né tantomeno riferimento ad una persona. E’ semplicemente la parte centrale della parola periferia, con l’espressa volontà voler riconferire centralità ai quartieri al margine della città.
“Lo spazio per il RIF è grande circa 1.700 metri quadri. Il progetto si sviluppa sotto il livello del suolo e che prende luce da alcuni vuoti ritagliati nell’area della corte che si apre sulla campagna romana. Il progetto attuale è entrato nella corte nord R5 che è un grande palazzo con tre corti che occupa tutta via dell’Archeologia”.
“Il progetto di architettura, è stato realizzato da Orazio Carpenzano con il suo team della Sapienza. E’ uno spazio interrato, tutto al piano -1, con tre grandi tagli nel cortile soprastante che rimarrà verde, anzi sarà più verde di prima. E da qui si instaurerà per i visitatori una relazione sia con il cielo che con il palazzo. Gli abitanti dei palazzi si affacceranno e vedranno il museo attraverso le fenditure. Si entrerà nello spazio abitativo e si entrerà nel museo. Quindi sarà un museo abitato”. Il museo abitato del MAAM, con la città di Metropoliz, è stato pionieristico in tal senso.
“Il Rif verrà fatto con i soldi del PNRR, quindi dovrebbe essere pronto entro 4 anni. Il mio progetto è di lavorare con La Sapienza e di radicare il museo prima nel condominio e poi nel quartiere. Non si può mettere un presidio culturale legato all’arte alla cultura dentro un condominio di periferia senza almeno provare a radicarlo”. De Finis programma di includere gli abitanti del luogo palesando tutte le fasi della costruzione, e non solamente con ruspe e polvere.
“L’idea è di individuare un cronoprogramma dei lavori e mettere sotto i riflettori la stessa opera architettonica. Ovvero considerare l’opera stessa come un work in progress artistico dove si racconta la costruzione mano mano che si crea, e di sfruttare le varie fasi del cantiere per attivarle con un evento importante. Va raccontata anche in fase di gestazione l’idea del museo. Penso che in questi 4 anni di lavori dovremmo restituire qualcosa agli abitanti del condominio”.
Ed in un futuro l’auspicio è che si crei un’osmosi tra la realtà locale ed il RIF, che come de Finis ammette, potrebbe atterrare nel quartiere come un UFO, come uno spazio alieno non riconosciuto. “Ci deve essere scambio con il territorio. Mi interessa che si incontrino pezzi di città che non si parlano, discipline che non si incontrano. A me interessa uno spazio complesso”.
Questo lavoro non è nuovo per l’antropologo e creatore del RIF. Già nei due anni al MACRO Asilo la partecipazione attiva delle persone è stato il metodo di successo del museo, la cui formula è stata riproposta anche nel bando attuale per la nuova gestione del MACRO.
“Il MACRO era un museo che lavorava sul palinsesto, quindi se si avevano tre ore di buco il museo era morto. E non è detto che tutto quello che è dentro l’istituzione museo debba essere accolto in modo positivo. Il RIF, il museo delle periferie, può funzionare solo perché tutti portano qualcosa”.
“A me piace l’idea che la direzione del museo faccia anche un passo indietro diventando accogliente e mettendo le virgolette sulle cose che ospita, che vuol dire agendo in maniera metalinguistica. Ovvero noi non ci mettiamo niente dentro il museo, noi ci facciamo”.
Lo spazio museale del RIF, dovrà essere uno spazio vivo. A differenza del museo tradizionale, il cui valore consiste esclusivamente nelle opere d’arte in esso contenute, il RIF – così come il MACRO Asilo quando era diretto da de Finis – troverà la sua chiave di volta nello spazio partecipato, nel senso più puro del termine.
“Le parole come partecipazione sono tutte addomesticate, vengono usate pensando che basti fare la foto di un cerchio e finisce lì. Ma non è così. Quando fai davvero partecipare le persone tutti i giorni ad un progetto, ciò che viene fuori rischia di scappare di mano, ed è un bene secondo me”. L’imprevedibilità dello spazio agonistico e del conflitto.
Un nodo centrale del progetto RIF che sarà, è il rapporto di questo luogo con le istituzioni. A domanda diretta De Finis risponde ribadendo cosa è un’istituzione: “Cosa si intende per istituzione? Io ho chiamato il MAAM museo dandogli il ruolo di istituzione. Lavoro perché l’istituzione sia una cosa di tutti, che non arrivi dal cielo, che non sia una cosa rigida e mortifera, come spesso intendiamo le istituzioni. L’istituzione può essere una cosa dinamica ed orizzontale. Io lavoro perché sia così, dove si evidenzi la differenza e che ci sia conflitto, quello buono”.
Ma le differenze ed il dissenso, si sa, generalmente suscitano timore. E sono costrette a rimanere come spazi interstiziali del quotidiano conformismo di massa, di certo più rassicurante, ma poco fecondo.
“Noi abitiamo in delle crepe. Che la crepa sia autonominata come il MAAM o la crepa sia dentro uno spazio istituzionale della città, per me rimane sempre una crepa. Se si vanno ad analizzare i nostri contenuti , le nostre istanze politiche con quella che è l’idea generale di come si gestisce la politica e la città, noi saremmo da schiacciare“.
“Quindi quando mi danno retta io penso sempre che ci sia una crepa, che non se ne sono accorti, che non hanno capito, che per un attimo gli possiamo servire ma che poi ci rimettono il bavaglio. Penso che sia a tempo limitato. Io lavoro per allargare questa crepa, metto radici e cerco di produrre spore. Quello che nasce dalle crepe mi sorprende sempre”.
a cura di Giulia Borraccino
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