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La guerra del grano, le connessioni tra conflitto e politiche alimentari

Interessi economici e intrecci geopolitici alla base delle tensioni dei mercati globali dei prodotti agroalimentari. Verso la guerra del grano

Guerra del grano (Foto Adobe)

Gli orizzonti del conflitto in Ucraina vanno ben al di là delle mappe disegnate dai generali nelle loro manovre, allargandosi oltre i confini europei e assumendo i contorni di uno scontro globale. E se questo non avviene, ancora, in termini militari, è evidente in quelli politici e geostrategici. È in atto una redifinizione del ruolo delle grandi potenze in senso multipolare e un confronto sempre più serrato tra l’Occidente e i suoi competitori globali, Russia e Cina in primo luogo ma non solo.

Tra le prime conseguenze della guerra è stata immediatamente indicata la crescita vertiginosa dei prezzi dei prodotti alimentari sui mercati mondiali, con particolare riguardo a quello del grano, con Ucraina e Russia tra i maggiori paesi esportatori al mondo. Eppure le tensioni e gli aumenti sul mercato finanziario delle soft commodities risalgono almeno alla metà del 2020, prima dello scoppio del conflitto armato. Prova di tensioni già esistenti e che nella guerra trovano solo un’ulteriore continuazione con altri mezzi, per dirla con Von Clausewitz.

Sul grano è in corso una guerra datata prima dell’invasione in Ucraina. Dal febbraio di quest’anno ad aprile, con l’offensiva russa iniziata da poche settimane, il prezzo del grano tenero è passato al Chicago Mercantile Exchange da 275 euro a tonnellata a 400 euro a tonnellata, dimostrando la sensibilità dei mercati per le vicende belliche e la loro disponibilità alle speculazioni. L’indice dei prezzi dei prodotti alimentari ha raggiunto, secondo la FAO, il suo livello più alto dal 1990, anno della sua creazione. La produzione mondiale di grano ha raggiunto gli 800 milioni di tonnellate negli ultimi anni, senza debellare tuttavia la crisi alimentare che attanaglia decine di Paesi e lascia affamate centinaia di milioni di persone.

La monocultura cerealicola infatti impone i suoi prezzi in termini economici, sociali e ambientali. Come racconta Eurispes, emblematico il caso africano dove la produzione agroalimentare è aumentata fino al 70%, ma al contempo la malnutrizione è cresciuta del 30% tra le popolazioni. Le eccedenze produttive sono state tutte a favore dei fondi speculativi internazionali, alimentando una produzione privata e monopolistica, completamente disinteressata alla ridistribuzione dei prodotti tra le popolazioni locali. Indifferente alle carestie che affliggono il continente.

Gli esempi non mancano. Etiopia, Sudan, Angola, Mali, Ghana, Madagascar hanno visto negli ultimi anni crescere notevolmente la loro produzione agricola, divenendo esportatori di prodotti non esclusivamente tropicali e tradizionali (caffè, cacao, zucchero), ma anche di grano e riso. Senza tuttavia porre fine alla piaga della malnutrizione che è anzi aumentata in termini drammatici, alimentata da guerra e crisi ambientali. In tutti questi Paesi le terre migliori e più produttive sono state cedute dai governi a multinazionali e fondi sovrani, orientando le produzioni esclusivamente alla monocoltura e all’esportazione verso l’Estremo Oriente, i Paesi del Golfo, l’Europa.

Nell’attuale crisi del grano anche la Russia ha un ruolo importante al di là delle vicende belliche. Nel 2021 infatti è stato il primo paese esportatore di grano al mondo, pur vincolando parte del prodotto al mercato interno e ai suoi alleati. L’esclusione della Russia dai mercati finanziari ha creato tensioni e fibrillazioni nel sistema creditizio, bancario e anche negli scambi commerciali dei prodotti alimentari. Ma con risultati poco apprezzabili dal punto di vista politico. Infatti la chiusura dei canali finanziari con l’Occidente non ha portato ad una crisi definitiva del Paese, non intaccandone né le riserve monetarie, nè quelle relative alle materie prime indispensabili al suo sistema produttivo.

Uniche conseguenze concrete una rimodulazione delle sue esportazioni in un’ottica di conflitto di lunga durata (con una maggiore attenzione al mercato interno) e un’aggravamento della crisi del mercato globale del grano con milioni di tonnellate di prodotti cerealicoli fermi nei porti del Mar Nero. Eppure non è solo il conflitto ad alimentare la spirale dell’aumento dei prezzi. L’Occidente ha le sue precise responsabilità.

È sufficiente pensare alla crescita esponenziale dei premi assicurativi sui trasporti navali delle produzioni agricole dall’Ucraina. O la scelta degli industriali italiani della lavorazione cerealicola di modificare la loro bilancia di riferimento e i relativi prezzi, passando dal quintale al chilo e incrementando anche del 30-40% il costo per allevatori e trasformatori vari (fornai e catene dell’alimentare italiano).

Ucraina e Russia prima della guerra erano tra i più grandi produttori al mondo con effetti politici sui paesi importatori, sul loro sistema commerciale e produttivo di filiera, sulle loro scelte strategiche. Il conflitto ne ridisegna alleanze e rapporti di forza. La possibilità che il grano ucraino resti sul territorio in guerra o non venga raccolto (per mancanza di porti sicuri,  per carenza di carburanti per i mezzi agricoli, per interessamento diretto negli scontri dei terreni agricoli) non è affatto remota, alimentando il pericolo di ulteriori peggioramenti della crisi alimentare globale.

Circa un miliardo e 700 milioni di persone dipendono direttamente dalla produzione di cereali ucraini e russi. Eritrea, Mauritania, Tanzania, Benin, Somalia dipendono al 100% dal grano dei due paesi belligeranti. Molti altri al 50%. Le conseguenze sociali e politiche di un blocco delle esportazioni sono immaginabili in termini di crisi umanitarie, rivolte e fenomeni migratori.

Esempio emblematico quello dell’Egitto, con una popolazione di 103 milioni di abitanti e una dipendenza pari all’84% da Ucraina e Russia per il grano, prodotto base dell’alimentazione per i 2/3 degli egiziani. Il Paese ha una bilancia dei pagamenti basata su un prezzo del grano concordato a circa 255 dollari a tonnellata e l’aumento dei prezzi ha spinto Al Sisi a sospendere contratti già sottoscritti con inevitabili forti tensioni sociali.

Il governo egiziano stima che le riserve cerealicole basteranno fino al termine dela stagione estiva. Condizioni simili vivono Libano, Yemen, Siria e altri paesi mediorientali. La stessa Turchia dipende al 100% dal grano dei due paesi belligeranti. Anche l’Europa paga un duro prezzo al conflitto.

A marzo è stato deciso dall’Unione europea di derogare alle disposioni della PAC (Politica Agricola Comune) mettendo a disposizione della produzione cerealicola e agricola i terreni precedentemente da lasciare a riposo e pari al 4% dell’intera superficie coltivabile. Una scelta scarsamente produttiva, in considerazione del fatto che quei terreni erano generalmente boschivi, non agricoli, scarsamente coltivabili. Con un impatto notevole sull’ambiente e i sistemi ecologici più delicati.

Non riuscendo ad aumentare la produzione interna di grano, in caso di confitto di lunga durata, la Comunità europea potrebbe decidere di limitare le proprie esportazioni verso paesi quali Algeria e Marocco che storicamente ne dipendono e orientadoli verso nuovi esportatori come l’India. Il paese asiatico produce il 14% del grano mondiale, appena dietro la Cina. La disponiblità di grano indiano sta spostando molti paesi verso la nuova offerta commerciale.

Iran, Indonesia, Tunisia, Egitto, Nigeria stanno aumentando le importazioni di grano dall’India. La produzione crescente, favorita da un uso massiccio di fertlizzanti e pesticidi, il sostegno economico governativo e i prezzi vantaggiosi fanno del paese del Presidente Modhi un pericoloso concorrente per Stati Uniti e Canada, gli altri grandi produttori mondiali, tanto da spingere Washington a chiedere  l’avvio di una procedura di infrazione presso l’Organizzazione mondiale per il Commercio (Omc) contro New Delhi per comportamenti lesivi della libera concorrenza.

Un nuovo fronte della guerra del grano, combattuta ormai su scala globale, che coivolge la ricerca di nuovi equilibri e gerarchie di potere diplomatico e militare tra le grandi potenze. Il conflitto in Ucraina ne è uno dei punti di maggior frizione con un potenziale pericolo di escalation militare gravissimo, ma che forse non è il più rilevante in termini di vite umane e disastri ambientali.

Pubblicato da
Vincenzo Pugliano