Ogni attività sui social comporta un atto di responsabilizzazione, la cui carenza rischia di tradursi in reato. Di cosa stiamo parlando
Per la cosiddetta “generazione Z”, ossia quella generazione di giovani nata tra l’ultimo barlume degli anni Novanta e il primo decennio del Duemila, risulta una realtà di fatto che non comporta alcuna domanda né tantomeno una spiegazione da attribuire alle trasformazioni comunicative apportare dai social network. Non c’è dubbi che per le generazioni precedenti ciò ha comportato una conversione totalmente assorbita da un modello interrelazionale ha recepito i paradigmi odierni dettati dalla tecnologia.
Oggi l’identità stessa delle persone ha assimilato la legge di una tacita convenzione per cui bisogna assimilare un’identità “social” come forma di riconoscimento; di conseguenza ne è nata una sorta di nuova integrazione; o meglio, quanto si verifica nella realtà risulta il contrario: l’iniziazione all’interno della socialità virtuale come propedeutica al rapporto sociale 2.0. Dal riconoscimento sociale al riconoscimento social.
Riferendoci ai social network, non si può citare la piattaforma più famosa, il cui nome ne è diventato il sinonimo di “social”, perché no, quello che ne riassume il fenomeno a livello globale e tutte le sue globali contraddizioni: Facebook. Ufficialmente battezzato nel 2004, da allora, le persone di ogni nazione del pianeta e di ogni ordine sociale si sono riversate nella grande agorà telematica, buona parte delle quali è attivamente coinvolta nel partecipare e commentare gli aggiornamenti degli altri soggetti che possiedono un profilo.
Ed il profilo social sembra oggi sostituire l’identità fattuale di una persona, “corredata” della sua fisicità (anche emotiva), anteponendo un comportamento pubblico indotto ad essere sopra le righe, a differenza di un atteggiamento discreto, il quale induca ad una rispettosa riservatezza – si oserebbe dire – intima. Pertanto, sollecitati da un comportamento di massa, nonostante il nome e cognome (molto spesso non ci sono), taluni si sentono autorizzati a criticare, ad attaccare ciascun post di carattere personale, opinionale, politico o di costume.
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Il tutto dietro una posticcia identità e un ben architettato anonimato. In tempi di postverità, la diffusione di informazioni, foto e video privi di alcuna garanzia di attendibilità è estremamente semplice, dato che i filtri sulle pubblicazioni censurano secondo parametri dettati dall’algoritmo, piuttosto che da un’umana sensibilità impossibile da programmare. Le leggi degli Stati stanno gradualmente ponendo delle regole per sanzionare le denigrazioni verso altrui soggetti e la contagiosa violenza degli insulti.
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L’utilizzo improprio dei dati o la premeditata manipolazione – viene ribadito dalla Cassazione – rientra nell’applicazione del reato di diffamazione aggravata. Tale reato prevede una condanna fino a 3 anni di reclusione. Riguardo al vilipendio alla reputazione altra, inoltre, il codice penale punisce con la richiesta di un risarcimento che può essere ingente.