Il krill, che da piccoli impariamo essere il cibo delle balene, è un anello fondamentale della catena alimentare e del mantenimento dell’equilibrio climatico ed è per questo che alcune pratiche industriali rischiano di creare danni e aggravare la crisi climatica già preoccupante
Cosa potrà mai succedere al pianeta se in un angolo del mondo qualcuno raccoglie manciate di micro gamberetti e li usa per creare integratori e cibo per i pesci di allevamento? La percezione della dimensione infinitesimale di questi animali ci potrebbe portare a credere che si tratti di cose di poco conto nell’economia generale del pianeta.
Eppure il krill che vive la sua piccola vita in Antartico non è solo cibo per un numero enorme di creature marine ma anche uno degli elementi che contribuiscono a mitigare gli effetti del cambiamento climatico, assorbendo dall’atmosfera l’equivalente dei gas prodotti da 35 milioni di vetture, ovvero 23 milioni di tonnellate di anidride carbonica ogni anno con un sistema per cui il gas viene trascinato verso il fondo dell’oceano.
I risultati della più recente ricerca pubblicata sulla piattaforma PEW devono farci riflettere e sono anche tra le basi dell’appello che Changing Markets fa affinchè si fermi la raccolta indiscriminata di krill in Antartico che, come spiega bene Sophie Nodzenski, Senior Campaigner di Changing Markets Foundation, è una pratica “inerentemente distruttiva nonchè una industria inutile“, un “gioco di fumo e specchi“.
Ma dove viene utilizzato il krill? In integratori alimentari e, soprattutto, nella produzione di mangimi per i pesci di allevamento in particolare il salmone che viene poi venduto in moltissime catene di supermercati in tutto il mondo. Gli integratori alimentari a base di krill, spiega il report, vengono sottoposti a un greenwashing sostenuto proprio per evitare che i consumatori si accorgano di quanto sia rischioso per la crisi climatica continuare a vendere e consumare questi integratori.
Uno dei claim più usati sfrutta, di nuovo, l’idea delle dimensioni. Nel report leggiamo infatti che “l’industria sta anche spingendo il suo racconto verso l’idea che l’attuale limite di cattura è un limite precauzionale perchè si tratta ‘solo dell’1% della biomassa di krill’ ma questo non spiega gli impatti sul vulnerabile ecosistema dell’Antartico, soprattutto alla luce dei cambiamenti climatici che accelerano“. E per mantenere il proprio sistema di guadagno, le industrie hanno anche commissionato nel tempo studi che cercano di giustificare l’utilizzo del krill come prodotto miracoloso.
Quello che Changing Markets chiede alla luce dell’inefficacia delle mosse compiute finora dalla Commission for the Conservation of Antarctic Marine Living Resources è che venga promulgata immediatamente una moratoria sulla pesca del krill nell’Antartico e che tutti coloro che utilizzano krill a livello industriale smettano di utilizzarlo.
Ritenendoci signori indiscussi del pianeta, tendiamo a percepire le creature di dimensioni più piccole come poco più che decorazioni e questa idea del dominio umano sta trasformando l’antropocene nell’anticamera dell’inferno.